Capitolo 2
‘’E poi non sapevo più cosa guardare, e guardai il cielo’’ Italo Calvino
Un cielo trapuntato di nuvole ci ha fatto compagnia per
tutto il viaggio, il lungo viaggio da Andasibe a Tisoranomandidy.
Abituati come siamo ad accorciare le distanze, ottimizzare i minuti e ridurre
gli sprechi di tempo, percorrere meno di quattrocento chilometri in dieci ore è
un’esperienza che solo armati di santa pazienza si riesce ad affrontare. Ma è
solo se usciamo dai nostri ‘’binari’’, se rinunciamo alla presunta produttività
del tempo, che possiamo riappropriarci della capacità di vedere, di ascoltare,
di pensare, che riusciamo a riappropriarci della lentezza.
Il tempo malgascio è diverso dal nostro tempo. La strada ce lo insegna.
La strada malgascia brulica di vita, è una piazza, è il cuore della vita della
comunità, è lo specchio del mondo.
La testa schiacciata contro il finestrino, in sottofondo una radio malgascia da cui escono canzoni piene di suoni misteriosi e parole arcane, quasi magiche e i nostri occhi a cui la strada offre dei quadri viventi.
Le donne malgasce sono la forza di questo popolo. Con le
spalle avvolte nei loro scialle colorati, i bambini per mano o in braccio e
cesti di vimini sulla testa, riempiono le strade, sono l’essenza stessa della
strada. Ci sono le donne intente a lavare i panni nei torrenti, che muovono le
braccia al ritmo della loro voce; ci sono quelle sedute dietro a banchetti nei
quali vendono frutta, verdura o le più svariate merci; ci sono quelle
affacciate alle porte delle case, che ci sorridono al passaggio.
Tutte accomunate dallo sguardo intenso, dolce e deciso che solo una donna può
avere. Uno sguardo incorniciato dai solchi dovuti alla fatica di occuparsi
della famiglia, al lavoro nei campi, dovuti al sole e all’aria secca.
Ci sono i bambini: decine, centinaia di bambini che corrono, saltano. Bambini che escono dalle scuole fieri dei loro grembiuli. Bambini che giocano con qualsiasi cosa gli si pari davanti. Bambini che corrono dietro al pulmino, ridendo del ‘’vazaha’’ (lo straniero).
C’è il traffico. I camion, le macchine, le Renault Diana beige trasformate in taxi, i carri trainati dagli zebù, i carretti pieni dei più svariati materiali tirati da ragazzi, i taxi-brousse colmi all’inverosimile di persone.
Ci sono gli odori. Acri, dolci, pungenti. Odore di terra bruciata. Odore di mattoni appena cotti. L’odore della nafta delle motozappe. Odori talmente intensi che si possono toccare.
Ci sono i panorami. La terra rossa brulla, le montagne spoglie, con pochi esemplari di alberi che attendono, vigilano dall’alto delle loro chiome. C’è la vertigine che ti investe quando non riesci a trovare l’orizzonte, quando mancano i punti di riferimento, quando ti senti smarrito davanti al tutto.
La strada ci offre questo.
La lentezza ce lo fa assaporare.
Un cielo trapuntato di nuvole, trafitto da coni di luce, ci ha fatto compagnia per tutto il viaggio.
GABRIELE